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Da Totti a Pirlo, da Baresi a Van Basten, storie intrecciate: quando è il “dio del calcio” che decide
Pubblicato
3 anni fail
da
Luca Rosia
Chiudi gli occhi e immagina. Immagina un Milan con Alessandro Del Piero in attacco, centravanti di grandi battaglie. O lo squadrone di Arrigo Sacchi senza però l’immenso Marco Van Basten, che nel 1987 – in arrivo dall’Ajax – nascose a Silvio Berlusconi i suoi problemi alla caviglia (tanto avrebbe recuperato durante l’estate). Oppure, ancora, riavvolgendo il nastro, a Franco Baresi Capitano del secolo, però con la maglia dell’Inter. Dopo le recenti parole di Adriano Galliani sui suoi rimpianti del passato ci siamo chiesti “quanto Milan è nato dalla fatalità?” Così ci siamo divertiti a pensare, a creare, a sognare sfogliando il grande libro dei ricordi.
Franco Baresi. Con delicatezza, perché quando si parla di storia del Milan bisogna sempre indossare i guanti (e non certo perché si rischia di essere contagiati). Partiamo da qui. Con delicatezza da Franco Baresi, senza dover e voler scomodare pellicole in bianconero, peraltro colori che non ci appartengono. Il lungo, infinito capitolo che mai fu scritto inizia con delicatezza: “Chiudi gli occhi e pensa. Pensa se fosse andata diversamente…” Andrebbe scelto come prefazione di ogni libro, ogni saggio, ogni romanzo sul mondo del calcio, l’arte del pallone. Nasce forse proprio lì quel tocco divino che spesso viene invocato nei commenti in questo sport: “Il dio del calcio dà, il dio del calcio toglie”, quante volte tra amici e sportivi l’abbiamo sentito anche solo sussurrare?
Il Capitano del secolo
Ebbene, il “dio del calcio” iniziò a divertirsi davvero una giorno qualunque di un anno qualunque, il 1974: allora giovanissimo, Franco Baresi vide togliersi con un tocco divino – mai capito e mai digerito nei decenni a venire – il sogno di indossare la maglia dell’Inter. Il provino con la dirigenza della Beneamata finì come peggio non poté concludersi: verdetto secco, “scartato” perché dal fisico troppo gracile. L’Inter preferì tesserare il fratello Beppe e per Franco fu bruciante sconfitta anche famigliare. Però si rifece, eccome, contando uno a uno tutti gli interessi: per lui si aprì un’altra opportunità, il Milan, delle due milanesi la squadra che stava attraversando negli anni Settanta il periodo più brillante, con qualche Coppa Italia in bacheca, una Coppa delle Coppe alzata al cielo ma anche la mente rivolta costantemente al ricordo della finale di Madrid di Coppa dei Campioni, il trofeo più importante per un Club, giocata nel 1969 contro l’Ajax di Johan Cruijff. Nessuno poteva sapere che dai piedi e dal carattere di quel ragazzino appena quindicenne, il Club avrebbe costruito una montagna di successi. Sulla sponda giusta del Naviglio, Franco è ancora oggi “il miglior Piscinin di sempre” come venne ribattezzato quando arrivò al Milan, agli occhi di tutti è “il Capitano del secolo”. La storia avrebbe descritto un viaggio diverso, probabilmente, se l’Inter, arrivata prima sull’occasione, quel giorno qualunque del 1974 ci avesse visto giusto.
Il silenzio di Van Basten
Il “dio del calcio” dà e il “dio del calcio” toglie. Lo fece molto bene, superando il concetto di “capolavoro”, con Marco Van Basten un decennio più tardi. Il talentino di Utrech, in uscita dall’Ajax allenata da Cruijff – volto che il diavolo si è trovato di fronte nella propria storia più volte, uscendone quasi sempre con un sorriso beffardo (tranne nel 1981 quando lo scartò dopo una comparsata di 45 minuti a San Siro, deludente) – covava un serio guaio alle caviglie ma nascose il problema al Milan, che lo aveva intercettato nei suoi radar e firmato con un pre-accordo. Marco era convinto di recuperare nel corso dell’estate (era il 1987), poi si presentò a Milanello con un sacchetto di plastica, una tuta e un dolore che proprio non passava. Berlusconi andò su tutte le furie, il danno economico dell’operazione poteva trascinare una nuvola densa di critiche, non certo il miglior biglietto da visita per un imprenditore di successo come lui arrivato due anni prima in pompa magna e ora alla sua prima vera stagione da patron del Milan, alla conquista del Mondo. Così, il caso venne congelato tra le mura di Milanello senza far trapelare nulla. Allora era compito non certo impossibile. Non è mai arrivata una risposta ufficiale, ma probabilmente se l’ex Cavaliere avesse saputo in tempo che le condizioni fisiche di Van Basten destavano forti dubbi sulla sua tenuta in campo, forse avrebbe posto un veto sul suo arrivo in rossonero. Il “dio del calcio” nel 1987 deve essersi divertito un bel po’, poi il solo pensiero di plasmare quel Milan che da lì a poco avrebbe vinto tutto diventando leggenda deve essergli sembrato troppo bello, troppo…divino per eclissarne un futuro già scritto con un clamoroso dietrofront di mezza estate. Così Berlusconi ingoiò il rospo e nacque il Milan di Marco Van Basten, due volte Pallone d’Oro, il miglior giocatore al mondo e il più grande che la storia del calcio in Italia abbia mai contemplato. Attraverso una specie di silente imbroglio (non voluto, senza malafede, dirà Marco anni dopo) il destino scrisse nuove pagine di vita rossonera: l’attesa rinascita del Milan dopo il glorioso squadrone di Madrid, i padri della finale del 1969.
Pirlo e la trattativa Rui Costa
Per il “dio del calcio” è sempre stato un delizioso passatempo. Un giochino delicato: togliere (a volte anche beffardamente dopo aver regalato il gusto dolce del trionfo) e dare, restituire. Non a tutti, ma chi ha sempre mostrato dedizione e coraggio come i condottieri di molti Milan del passato si è poi trovato nel cassetto dei ricordi la giusta dose di successi e gloria, merito e celebrazione. Atene, che arrivò dopo Istanbul, nel 2007, ne fu l’esempio storico più lampante. Per la squadra e i suoi uomini. Qualche anno prima Andrea Pirlo arrivò in rossonero dall’Inter all’interno di un’operazione che ancora oggi viene raccontata nelle accademie del calcio come uno dei più grandi errori di sempre. Va vista ovviamente sotto entrambe le lenti di ingrandimento: perché, a dire il vero, per il Milan di Adriano Galliani, regista navigato, quello fu invece un affare da leccarsi i baffi. Finito ai margini dell’Inter di Marco Tardelli, Andreino si fece le ossa in prestito nel suo Brescia, il Brescia di Carletto Mazzone che lo vestì di un ruolo nuovo nel cuore del centrocampo, in cabina di regia, convinto del suo talento e avendone poi ragione; tornò all’Inter dalla porta secondaria e da quella ne uscì poco dopo, direzione Milanello dove rimase per dieci stagioni. E dove vinse tutto. Nell’operazione il Milan inserì il cartellino di Dražen Brnčić: 35 miliardi di lire nelle casse dei rivali cittadini più le prestazioni sportive dell’ex Monza, un croato naturalizzato belga che Galliani volle con forte desiderio in rossonero convinto forse di aver trovato un futuro Pallone d’Oro. Qualche lampo accecante offusco la vista anche a un esperto uomo di calcio come Galliani. Il librone di quelle stagioni racconta, nel paragrafo dedicato a Brnčić, di un solo poker rifilato al Tradate in amichevole (20-1 il risultato finale) e una curva poi costantemente in discesa. Il Milan degli anni a venire avrebbe trovato lì il suo direttore d’orchestra: Andrea Pirlo, scartato da Prandelli e poi da Hector Cuper. Nell’estate del 2001 il “dio del calcio” regalò al mondo un’altra perla delle sue, ma non si limitò a un passaggio da una sponda all’altra del Naviglio, troppo facile e scontato. Aggiunse pepe. Il Milan infatti in quella stessa sessione di mercato stava corteggiando il portoghese della Fiorentina Manuel Rui Costa, alla ricerca di un numero dieci degno della sua storia. Nella tempesta estiva che segnò la trattativa sull’asse Milano-Firenze, Galliani provò anche a inserire il cartellino di Andrea Pirlo appena prelevato dall’Inter. Il fine era abbassare le ingenti richieste economiche della Viola. Niente da fare, l’allora presidente Vittorio Cecchi Gori rispedì al mittente il pacco (per così dire) e l’operazione si trascinò per settimane. La cronaca disse che Rui Costa sbarcò in Lombardia per la cifra record di 85 miliardi di vecchie lire. La Gazzetta l’indomani aprì così: “Il colpo che infiamma il mercato”, ignara – perché il “dio del calcio” fa, in solitudine, e non condivide, non regala quasi mai previsioni certe a noi umani – che il vero colpo indossava invece la maglia numero 21.
Offerte e rifiuti
E se fosse arrivato Alessandro Del Piero al Milan? Se il Milan avesse investito quei 5 miliardi di lire richiesti dal Padova? E se avesse speso i 17 che lo Sporting Lisbona pretendeva in cambio di un giovanissimo Cristiano Ronaldo? “Chiudi gli occhi e immagina. Immagina se solo quel Milan avesse azzardato…!” E se il Milan fosse poi riuscito, anni dopo, nell’impresa di convincere Francesco Totti? Cosa sarebbe successo? Quale storia racconteremmo oggi? Adriano Galliani ne ha parlato proprio in questi giorni accendendo l’immaginazione di appassionati e tifosi: «Ho due rimpianti dei miei anni al Milan – ha detto l’ex A.D., ora dirigente al Monza -, uno è Del Piero, che potevamo prendere dal Padova, e l’altro è Cristiano Ronaldo, dallo Sporting Lisbona». Totti per la verità non può essere considerato un rimpianto perché non venne proposto, venne cercato. Totti e il Milan si sono sfiorati in due occasioni, in entrambe il “dio del calcio” si oppose secco al matrimonio. Se qualcuno è contrario parli ora o taccia per sempre. Parlò nel 1989, mordendosi poi la lingua e creando così una seconda opportunità anni dopo, con l’attenta regia di Galliani. A 13 anni Francesco fu a un passo dal Milan. Era appunto il 1989. Bussarono a casa Totti emissari mandati da Silvio Berlusconi con una valigetta contenente un foglio bianco da firmare e un sogno, ma mamma Fiorella si oppose. Tanti cari saluti. Finì così, il “dio del calcio” chiuse la porta in faccia al diavolo. La Roma di Totti nacque trent’anni fa, su un pianerottolo della Capitale.
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