Il Fudbalski Club Crvena Zvezda, meglio conosciuto come “Stella Rossa di Belgrado”, nasce sul finire del secondo conflitto mondiale (nel febbraio del 1945) da un gruppo di studenti dell’omonima capitale serba. Nacque, più specificamente, dalle ceneri del SK Jugoslavija, da cui ereditò stadio, uffici, giocatori, logo (cui fu aggiunta una stella rossa) e colori sociali, il rosso e il bianco.
Quegli studenti, però, non erano semplici universitari, bensì corrispondevano alla “Lega giovanile antifascista serba”, un gruppo politico non ancora ufficiale con idee sociali chiaramente vicine al marxismo e fedeli al loro futuro condottiero: Tito, dalla lega adotteranno anche il simbolo della Stella rossa. Fa strano pensare che, come vedremo, circa trent’anni dopo lo stesso Tito diventerà bersaglio dei tifosi biancorossi.
La squadra impiega tempo per raggiungere i traguardi pianificati dalla politica, ma quando il successo arriva ha inizio l’epopea biancorossa. Il primo scudetto è datato 1951 e in quel decennio la squadra si laureerà campione di Jugoslavia per sei volte. Nello stesso periodo comincia a prendere forma e a crescere il tifo organizzato, il lato oscuro di un regime che pretende normalizzazione, ordine e fedeltà. Almeno sotto il profilo formale. I gruppi ultras più accesi, sembrerà strano, provengono tutti dalle zone borghesi di Belgrado.
Inizialmente il Crvena giocava in un’altro stadio, poi negli anni Sessanta arriva il famigerato Marakana, in onore del tempio del calcio brasiliano. È in quel periodo che i serbi cominciano a ribellarsi al governo jugoslavo, perché lo spirito di una città è anche nelle sue squadre di calcio. E il tifo, soprattutto in Serbia, è ribellione, non ideologia. Può anche essere adesione a qualche partito, ma sempre ai propri patti. Non sposa mai qualcosa in toto. Che cosa vuole il regime? Cittadini onesti, tranquilli, forse rassegnati. Gente magari mediocre, ma funzionale. Non si può chiedere questo a chi tifa Stella Rossa. «Chiedetelo a quelli del Partizan, loro rappresentano l’Esercito. Noi rappresentiamo noi stessi» sembrano dire i capi ultras biancorossi al potere politico. Già, quelli del Partizan…che, oltre a essere i cugini e rivali storici della Stella, sono pure gemellati con la Curva Sud Milano. E sono più vicini al governo di Tito rispetto ai biancorossi. Le due frange ultras danno vita, ogni anno, al cosiddetto “večiti derbi”, la rivalità eterna.
Lo stesso tifo organizzato della Stella, negli anni Ottanta, fece insorgere le proteste anti-Jugoslavia da parte dei serbi. Per la prima volta si cominciano ad ascoltare cori razzisti a sfondo etnico: un’attitudine che il governo aveva sempre contrastato, ricorrendo anche ai mezzi repressivi più duri. Da quel momento il controllo sul tifo si allenta progressivamente e l’odio comincia a trovare canali espressivi efficaci. Il sistema politico è entrato in crisi e all’improvviso non ci si sente più jugoslavi ma, a seconda dei casi, serbi, croati, sloveni, macedoni, montenegrini o bosniaci. Risorge quel sentimento che il regime di Tito aveva soffocato, non soltanto nelle grandi città.
Nel 1991 il Muro di Berlino è caduto da due anni. La Jugoslavia si sta consumando in un futuro che sembra essere ormai scritto nel peggiore dei modi. La Stella Rossa vive invece un’annata irripetibile mentre gli spalti del Marakana hanno cambiato fisionomia e linguaggio. I capi ultras sono ora criminali in carriera al servizio del nuovo potere politico. Da tempo, sugli striscioni dei sostenitori della Stella Rossa è scritto “Serbia, non Jugoslavia e solo l’unità salverà i serbi”. La guerra è un concetto che trova espressione verbale nelle curve di uno stadio. Pian piano le parole si concretizzano. Ognuno attacca come può, ognuno si difende come riesce. La vittoria della Stella Rossa nella Coppa Campioni e poi nell’Intercontinentale (contro i cileni del Colo Colo) potrebbero rinsaldare un sentimento, ma non sarà così. Magari, chissà, avrebbe potuto esserlo se nel mondiale italiano del ’90 capitan Faruk avesse segnato il rigore ai quarti con l’Argentina, dando agli jugoslavi l’opportunità di credere per la prima volta tutti insieme in un unico sogno: vincere il primo mondiale di calcio.
Nel marzo del 1992 andò in scena il Veciti derbi al Marakana. I biancorossi entrarono allo stadio guidate dal proprio capo, il comandante Arkan, con tre striscioni: “Venti chilometri a Vukovar”, “Dieci chilometri a Vukovar”, “Benvenuti a Vukovar”. Tutto lo stadio applaudì l’ingresso di questi paramilitari. Cosa c’entra col calcio? Beh Arkan, al secolo Zeljko Raznatovic, era il capo ultras della Stella Rossa e le sue Tigri (che entrarono con lui) il gruppo di tifosi più violento della Stella. Dall’agosto al novembre 1992, anche le Tigri presero parte all’assedio e alla presa di Vukovar (cittadina serba nel territorio croato), compiendo una strage di cittadini croati. L’episodio fu salutato con entusiasmo anche dai tifosi del Partizan. Eravamo nel cuore della guerra in Jugoslavia. Il comandante Arkan è stato un personaggio che si distinse in quegli anni: grazie alle gare della Stella Rossa, infatti, reclutava nuovi paramilitari tra i sostenitori che andavano alla stadio. Le Tigri divennero il braccio armato dell’espansionismo serbo del presidente Slobodan Milosevic.
Arkan verrà assassinato a guerra ormai finita, nel 2000, ma lasciando forti impronte della sua ideologia sociale su tutto il territorio Jugoslavo. I cori razzisti a sfondo etnico infatti, proseguono tutt’oggi.