Il problema del Milan è la doppia mancanza di un vero dieci e un nove, mediocrità infinita dopo Seedorf e Inzaghi…
Dal dopo Allegri il Milan non è più stato lo stesso. Perché? Dove si annida il problema principale? Le cause sono molteplici, ma una in particolare mette tutti d’accordo. La mediocrità in campo ha prevalso sulla qualità. Due i ruoli chiave che non hanno trovato degni eredi e difensori di un passato esemplare: il trequartista e il bomber.
Il dieci e il nove, la genialità e l’istinto. Il numero dieci nel calcio è la perfezione, “il numero dieci è il calcio”, l’umano e il divino che si incontrano e danno origine a qualcosa di incredibile, unico, spesso inimitabile. Il numero nove invece è colui che spesso ne beneficia, si abbevera di quella potente pozione terapeutica che nasce dai piedi e dalla testa, dal talento cristallino, del trequartista. Nello sport, quando genio e istinto si incontrano, danno origine a un’esplosione quasi mai possibile da contenere.
In 120 anni di storia, il Milan di dieci e di nove “veri”, a Milanello ne ha visti passare, eccome. Merito di chi, tra presidenti, dirigenti e tecnici, ha osservato e azzardato, puntando su gioventù a volte fragile o ingestibile, ma ben indirizzata al successo. Marco Van Basten e Ruud Gullit ne furono l’esempio lampante. Il nove e il dieci del manuale del calcio.
Aversi fatto l’occhio su quel Milan, ha generato nella mente di ogni milanista, dei tempi che furono e dei nostri giorni. Per due generazioni almeno un senso di immortalità, di superiorità intatta solo al pensiero di associare due colori, il rosso con il nero. La sfumatura che ne esce colora il concetto di vittoria, il nostro dna lo chiamano alcuni. Il Milan ha quell’impronta e sempre l’avrà. Anche nei periodi della sua vita più bui e delicati. Anche senza un dieci e un nove di spessore sul verde di San Siro.
Un dieci il Milan oggi ce l’ha, ma il suo profilo tecnico è lontanissimo dai canoni del grandi dieci diventati leggenda. Rivera, Boban, Seedorf, Rui Costa, qualche gradino sotto Boateng (a cui manca, rispetto ai predecessori, una dimensione europea). Spesso il buio dalle parti di San Siro è stato anticipato da tenui lampi di luce, una luce però troppo pretenziosa: Keisuke Honda, per fare un nome su tutti, avrebbe dovuto dare nuovo lustro a quella gloriosa maglia, la verità è che fece ben poco per meritarsela davvero. Il profilo tecnico e quello psicologico non collimavano con l’identità dei grandi dieci della storia.
Oggi Hakan Calhanoglu la 10 la indossa con rispetto, la cura come un cimelio, onorandola senza troppe sbavature. È l’uomo di questo Milan che sforna più conclusioni (50 volte nel campionato oggi in sospeso, di cui 28 nello specchio della porta). Ma il dato statistico, a cui vanno aggiunti anche 3 goal realizzati, in questa analisi generazionale va collocata a margine, una nota di contorno. Hakan ricopre il ruolo di trequartista dall’arrivo a Milano di Stefano Pioli.
Prima, con Montella, Gattuso e Giampaolo, si è limitato a tamponato con impegno, si è reso utile più a centrocampo, offrendo quella duttilità che soprattutto a Ringhio è servita per tenere la barra a dritta fino al termine della stagione, con la Champions League sfumata per un giro di calcoli sfavorevoli al Milan all’ultima giornata. Da dieci puro, sulla trequarti, Calha si sente più a suo agio e infatti tira, ci prova, ma non brilla.
Non è devastante, a volte è decisivo (come nel match di Coppa Italia contro il Torino terminato 4-2 con una sua doppietta – la prima in Italia – a un amen dal novantesimo), ma non fa brillare l’occhio. Non è genialità, non è un Gullit, non è un Rui Costa, non è nemmeno Seedorf (faro del Milan rinato ad Atene dopo Istanbul). Neanche Boateng.
Di strada da fare per crescere ne ha ancora parecchia e l’arrivo di Ralf Rangnick sulla panchina rossonera la prossima stagione potrebbe certo aiutarlo. Il professore tedesco conosce molto bene Calhanoglu, l’ha seguito e analizzato nel dettaglio come da sua formazione, l’ha fortemente voluto al Lipsia un anno e mezzo fa, ma Gattuso – allora allenatore di Hakan – bloccò tutto minacciando di abbandonare la guida tecnica.
Clarence e Pippo restano iconici

Milan senza dieci e nove: dopo Seedorf e Inzaghi la mediocrità ha prevalso sulla qualità
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Sull’involuzione del numero nove si potrebbero invece scrivere enciclopedie di parole o aprire dibattiti infiniti. Dentro il tema c’è chi addirittura ha rinunciato a “capire”, scegliendo fra le scorciatoie la più facile: «È un numero maledetto». Al Milan da Filippo Inzaghi in poi è stato un crescendo di mediocrità. Guardando la statistica finalizzativa, che per un bomber non è certo marginale, ossia la quantità di reti realizzate dagli ultimi 9 rossoneri il bottino è clamorosamente povero: Matri (un goal), Torres (un gol), Pato (2 goal), Destro (3 goal), Piatek (5 goal), Higuain (6 goal), Luiz Adriano (6 goal), Lapadula (8 goal) e André Silva (10 goal). Vanno tenuti conto i minutaggi, naturalmente, ma per il risultato cambia poco. Il passo del glorioso Milan si è lentamente spento al pari di quello dei suoi finalizzatori. Manca l’istinto nella sua purezza.
Non è un caso che a Ralf Rangnick si associ in questi giorni Timo Werner. Al Lipsia indossa la casacca numero 11 ma in Nazionale, dove sta emergendo, sfoggia la 9. Numero che lo ha visto protagonista anche nelle giovanili dello Stoccarda. Per qualità e quantità Timo è il miglior talento under 23 nel suo ruolo in Germania. Nella stagione in corso ha collezionato 27 goal in 36 presenze, condite inoltre da 12 assist serviti ai compagni. Gioca più esterno, a sinistra, ma è un attaccante centrale. E ha i numeri del bomber. Il cartellino ha un valore fuori portata oggi per il Milan, non meno di 60 milioni, ma per un’occasione del genere motivare un investimento da top club potrebbe non essere così complicato.
In altre parole bisogna – nel caso – convincere Elliott, magari rientrando in parte con la cessione di Gigio Donnarumma (che potrebbe partire sulla base di 35-40 milioni, non meno). Rangnick – dicono in Germania – stravede per il suo pupillo (è lui che ne ha scovato il talento) e farebbe di tutto per portarselo con se, ovunque.
Werner dal canto suo è alla ricerca di un progetto che lo possa proiettare davvero nell’Olimpo del grande calcio per molti anni a venire e il Milan detiene le istruzioni meglio di qualsiasi alla società europea, il dna, con tutto il rispetto per il Lipsia, oggi con grande merito ai quarti di finale di Champions. Werner al Milan forse è un rischio per entrambe le parti, ma con una logica veduta e progettualità alla base dall’operazione, oggi utopica, potrebbe scoccare la scintilla che a Milanello non si vede da troppo tempo. A volte, la gloriosa storia rossonera lo insegna, azzardare è la via migliore.




